I libri di poesia, si sa, circolano in pochissime copie: raramente sono presenti in libreria, se non dove l'autore è conosciuto (spesso, nanche là...);
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da
La gioia è un turbine di quiete,
a cura di Elena Petrassi, con un saggio di Maddalena Cavalleri,
"Il passo di Efesto", ATì Editore, Milano 2014
Nel chiaro del perdono
con una lettera di Roberta De Monticelli,
Collezione di poesia “Tabula”, n° 79,
a cura di Massimo Scrignòli,
Book Editore, Bologna 2002
O learn to read what silent love hath writ
W. Shakespeare, Sonnets
-------
Un riserbo, Layla, perché giunga
forse un polline mai visto, un fiore
azzurro dalla voce chiara - e tutto
sorga in ubbidienza, al tempo
adatto.
Benedico, Layla, e sembra
che si posi una carezza
sulla fronte sgombra d’empietà: quasi
l’ultimo saluto di un amico,
tenerezza o carità
non saprei dire.
Tanto bene, Layla, filtrerà
dai giorni ad una pace
pura - goccia a goccia,
ma senza interruzioni.
C’è come un intrecciarsi
degli istanti perché s’aprano
cunicoli accessibili alla luce
umana, inconfutabile.
Layla, come illumina le labbra
questa gioia tanto giovane
sul viso e già capace
d’invitare gli smarriti
angeli dal buio vento
al bacio della pace.
Riposano le cose, fiduciose
sotto l’arco della gola: è bello
accarezzarle - tutte,
se davvero è delicata
e dunque giusta la parola.
Tra i beati in questo mondo
c’è una sola qualità di gesto
umano, un ritrarsi dal contatto
e insieme una prontezza, uno scatto
d’ali aperte in chi conobbe l’ora
della mano vuota.
Layla, il dono immeritato
delle lacrime, lo so, non è
per tutti - eppure scinde ovunque
il bene dall’assurdo
in una forma così chiara
che vedremmo piangere
le stelle se venisse
negato ad occhi umani.
Non so, ma vorrei proprio
nella notte una sorpresa impensabile
di luce - così intensa,
Layla, da creare
nelle membra abbandonate come
stormi d’occhi aperti pronti
al volo.
Ho creduto quasi sempre
in una legge di pietà
nell’universo, persuaso
d’una giusta volontà
di tenerezza forse incredula
di sé, esitante nel mostrare
il suo potere. Eppure, il mondo
non domanda, Layla, non le chiede:
le offre asilo.
Chissà da dove vengono
le persone amate e poi
le altre apparizioni d’innocente
grazia immersa nel dolore
e nel ricordo: non c’è
moderazione, niente
limita le ore generose.
con una lettera di Roberta De Monticelli,
Collezione di poesia “Tabula”, n° 79,
a cura di Massimo Scrignòli,
Book Editore, Bologna 2002
O learn to read what silent love hath writ
W. Shakespeare, Sonnets
-------
Un riserbo, Layla, perché giunga
forse un polline mai visto, un fiore
azzurro dalla voce chiara - e tutto
sorga in ubbidienza, al tempo
adatto.
Benedico, Layla, e sembra
che si posi una carezza
sulla fronte sgombra d’empietà: quasi
l’ultimo saluto di un amico,
tenerezza o carità
non saprei dire.
Tanto bene, Layla, filtrerà
dai giorni ad una pace
pura - goccia a goccia,
ma senza interruzioni.
C’è come un intrecciarsi
degli istanti perché s’aprano
cunicoli accessibili alla luce
umana, inconfutabile.
Layla, come illumina le labbra
questa gioia tanto giovane
sul viso e già capace
d’invitare gli smarriti
angeli dal buio vento
al bacio della pace.
Riposano le cose, fiduciose
sotto l’arco della gola: è bello
accarezzarle - tutte,
se davvero è delicata
e dunque giusta la parola.
Tra i beati in questo mondo
c’è una sola qualità di gesto
umano, un ritrarsi dal contatto
e insieme una prontezza, uno scatto
d’ali aperte in chi conobbe l’ora
della mano vuota.
Layla, il dono immeritato
delle lacrime, lo so, non è
per tutti - eppure scinde ovunque
il bene dall’assurdo
in una forma così chiara
che vedremmo piangere
le stelle se venisse
negato ad occhi umani.
Non so, ma vorrei proprio
nella notte una sorpresa impensabile
di luce - così intensa,
Layla, da creare
nelle membra abbandonate come
stormi d’occhi aperti pronti
al volo.
Ho creduto quasi sempre
in una legge di pietà
nell’universo, persuaso
d’una giusta volontà
di tenerezza forse incredula
di sé, esitante nel mostrare
il suo potere. Eppure, il mondo
non domanda, Layla, non le chiede:
le offre asilo.
Chissà da dove vengono
le persone amate e poi
le altre apparizioni d’innocente
grazia immersa nel dolore
e nel ricordo: non c’è
moderazione, niente
limita le ore generose.
Nel centro del ricordo
Collezione di poesia “Tabula”, n° 106
A cura di Massimo Scrignòli
Book Editore, Bologna 2004
A Carlo Menozzi:
le stagioni, dialogando
“We only know what time of Year
We took the Mystery”.
EMILY DICKINSON
NOTA PER LA LETTURA
Recitazione a due voci, assolutamente sonora: due voci maschili.
Ogni serie è un'unità: compiuta in sé: una sola poesia.
-------
Dedica
Vedremo, Carlo, il nostro Dio
sortire dalle noci, dalle bacche
aperte in forma di rugoso
seme o succo scuro e dare
presto in una selva di germogli
e segni, e poi radici e tronchi
e rami, e frutti di terrestre
gioia nella luce rapida,
cresciuta insieme a lui scrivendo
questa era la terra, questo
il senso del rigoglio
inarrestato, delle tante
perdite, del sole
in alfabeti
di risorta vita, in segni
scuri: con il succo amaro
delle bacche contro il giubilo
abbagliante della luce.
Le gemme hai visto aperte
1
Vorrei dirti, sai - ma tu sai tutto
dall’eterno
non importa, e poi
la voce ha un timbro nuovo,
dà sostanza e corpo, preme
ciò che sento e lo matura: nasce
il vino dell’eterno dalla voce
che racconta e versa in me: raccolgo
volentieri, tengo in serbo
come
vino, dunque, vorrei cederti
un racconto, come grappoli
premuti e chiusi a lungo, fermentati
dentro il rovere o la quercia: anch’io
così lo voglio.
2
Non perché qualcuno attenda
nell’urgenza estrema, non per questo
solamente
tu non sai, non puoi sapere
fino a quanto, non perfettamente
ma perché vedrei un fremito
di gioia nella macchia dietro casa
e levare il capo gli scoiattoli
sorpresi, volgerlo con segni
di saziata quiete all’improvviso
e nocciole aperte, rosicchiate
in parte rotolare sulle foglie
morte, un suono secco e ripetuto,
rimbalzato e la fulminea
corsa delle code fulve giù
per loro, a ritrovarle
perché il rito della vita
si riprenda, uguale a sé
non credo:
lo vedrei piuttosto confermato
nella propria libertà
di esistere, convinto d’innocenza
da quel tuo disteso vólto apparso
come in filigrana nella luce.
3
Dove sorge il vento e torna, forse
nulla è mutamento, non si muove
foglia o erba, non s’avverte
una perenne fuga d’ali e voci
come qui dove non sosta mai né
mormora di sé ma solo induce
a confidenza d’ali e foglie,
innalza voci, ancora
libera i racconti delle erbe
guarda bene, adesso, come
luccica la brina e varia il tono
della luce, muove luce appena
il vento sfiora e suscita,
consente: questa
luce limpida d’inverno e quasi
liquida, lacustre
e dove sorge
il vento e torna, forse tutto
è mutamento come adesso
e confidenza d’ali e foglie
quietamente nella luce
originaria.
Collezione di poesia “Tabula”, n° 106
A cura di Massimo Scrignòli
Book Editore, Bologna 2004
A Carlo Menozzi:
le stagioni, dialogando
“We only know what time of Year
We took the Mystery”.
EMILY DICKINSON
NOTA PER LA LETTURA
Recitazione a due voci, assolutamente sonora: due voci maschili.
Ogni serie è un'unità: compiuta in sé: una sola poesia.
-------
Dedica
Vedremo, Carlo, il nostro Dio
sortire dalle noci, dalle bacche
aperte in forma di rugoso
seme o succo scuro e dare
presto in una selva di germogli
e segni, e poi radici e tronchi
e rami, e frutti di terrestre
gioia nella luce rapida,
cresciuta insieme a lui scrivendo
questa era la terra, questo
il senso del rigoglio
inarrestato, delle tante
perdite, del sole
in alfabeti
di risorta vita, in segni
scuri: con il succo amaro
delle bacche contro il giubilo
abbagliante della luce.
Le gemme hai visto aperte
1
Vorrei dirti, sai - ma tu sai tutto
dall’eterno
non importa, e poi
la voce ha un timbro nuovo,
dà sostanza e corpo, preme
ciò che sento e lo matura: nasce
il vino dell’eterno dalla voce
che racconta e versa in me: raccolgo
volentieri, tengo in serbo
come
vino, dunque, vorrei cederti
un racconto, come grappoli
premuti e chiusi a lungo, fermentati
dentro il rovere o la quercia: anch’io
così lo voglio.
2
Non perché qualcuno attenda
nell’urgenza estrema, non per questo
solamente
tu non sai, non puoi sapere
fino a quanto, non perfettamente
ma perché vedrei un fremito
di gioia nella macchia dietro casa
e levare il capo gli scoiattoli
sorpresi, volgerlo con segni
di saziata quiete all’improvviso
e nocciole aperte, rosicchiate
in parte rotolare sulle foglie
morte, un suono secco e ripetuto,
rimbalzato e la fulminea
corsa delle code fulve giù
per loro, a ritrovarle
perché il rito della vita
si riprenda, uguale a sé
non credo:
lo vedrei piuttosto confermato
nella propria libertà
di esistere, convinto d’innocenza
da quel tuo disteso vólto apparso
come in filigrana nella luce.
3
Dove sorge il vento e torna, forse
nulla è mutamento, non si muove
foglia o erba, non s’avverte
una perenne fuga d’ali e voci
come qui dove non sosta mai né
mormora di sé ma solo induce
a confidenza d’ali e foglie,
innalza voci, ancora
libera i racconti delle erbe
guarda bene, adesso, come
luccica la brina e varia il tono
della luce, muove luce appena
il vento sfiora e suscita,
consente: questa
luce limpida d’inverno e quasi
liquida, lacustre
e dove sorge
il vento e torna, forse tutto
è mutamento come adesso
e confidenza d’ali e foglie
quietamente nella luce
originaria.
Le rose più di tutto
Quadernetto n° 9
a cura di Roberto Dossi
I Quaderni di Orfeo, Milano 2005
(99 copie numerate)
-----------------
I
Le parole, Layla: semplicissime -
durezza ulivi e sole, inverno
chissà come attraversato,
i pollini nell’aria e il giorno
terso, la pioggia i passeri
le rose – loro sì, le rose
più di tutto: e chiedo
tra noi due se mai ricordino
del morso della brina,
la terra dura e bianca nella fuga
abbacinante della luce – forse
questo le fa carne tenera
dell’anno, e dono e sangue
per la tua giustizia.
II
I passeri nell’ombra delle prime
rose, del glicine sospeso a veglia
in pieno sole mentre vanno
alla ricerca dove sorge
il rosmarino nella macchia
immensurabile per loro, passo
a passo – domestico è lo spazio,
coltivato – e salto e volo
breve, io degnissimi
li credo della luce intorno,
della luce ancora e d’altra luce
di frescura e pasto, d’ogni bene
immensurabile per loro degni e degni
nella luce adesso, nella vita.
III
(… di loro no, nemmeno più parola
o cenno, ai passeri
puoi dire tanto ancora senza
suono mai, non visto i tuoi pensieri
come pollini di rosa o
primule minuscole
sensibili per loro quando tuffano
dal folto dell’abete da chissà
quale dovere o svago nella vita
calda, mobilissima, visibile
quel tanto che ci placa intimamente,
Layla, e ci perdona nello sguardi ,
solo gioia e quieto augurio,
solo questo per i passeri, nel vero)
Quadernetto n° 9
a cura di Roberto Dossi
I Quaderni di Orfeo, Milano 2005
(99 copie numerate)
-----------------
I
Le parole, Layla: semplicissime -
durezza ulivi e sole, inverno
chissà come attraversato,
i pollini nell’aria e il giorno
terso, la pioggia i passeri
le rose – loro sì, le rose
più di tutto: e chiedo
tra noi due se mai ricordino
del morso della brina,
la terra dura e bianca nella fuga
abbacinante della luce – forse
questo le fa carne tenera
dell’anno, e dono e sangue
per la tua giustizia.
II
I passeri nell’ombra delle prime
rose, del glicine sospeso a veglia
in pieno sole mentre vanno
alla ricerca dove sorge
il rosmarino nella macchia
immensurabile per loro, passo
a passo – domestico è lo spazio,
coltivato – e salto e volo
breve, io degnissimi
li credo della luce intorno,
della luce ancora e d’altra luce
di frescura e pasto, d’ogni bene
immensurabile per loro degni e degni
nella luce adesso, nella vita.
III
(… di loro no, nemmeno più parola
o cenno, ai passeri
puoi dire tanto ancora senza
suono mai, non visto i tuoi pensieri
come pollini di rosa o
primule minuscole
sensibili per loro quando tuffano
dal folto dell’abete da chissà
quale dovere o svago nella vita
calda, mobilissima, visibile
quel tanto che ci placa intimamente,
Layla, e ci perdona nello sguardi ,
solo gioia e quieto augurio,
solo questo per i passeri, nel vero)
Luce alla mia destra
(Sonetti a due voci)
Collezione di poesia “Tabula”, n° 124,
a cura di Massimo Scrignòli,
Book Editore, Bologna 2006
A Layla: qui, con lei
NOTA PER LA LETTURA
Recitazione a due voci, assolutamente sonora: in tondo la voce maschile, in corsivo la femminile. Tenerezza virile e volitiva lungimiranza femminile.
Ogni serie è un'unità: compiuta in sé: una sola poesia.
NOTA SULLA RICORRENZA DELL'IMMAGINE DELLA ROSA
A proposito del pensiero zoharico, nota G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, p. 414: "La forza apotropaica di šošannah [plurale di šošan, "rosa", n.d.r.]trovò una spiegazione ulteriore nella corrispondenza tra i componenti della corolla e le lettere del Tetragramma, yod, he, waw, he: “La rosa ha cinque petali all’interno e cinque all’esterno, che equivalgono alle due he, mentre lo stelo è la waw e il pistillo è la yod”. E’ la struttura visiva della rosa a guidare, in questo caso, il collegamento con le consonanti ebraiche, con un movimento che trae origine dai petali, per scendere lungo il gambo e tornare poi al centro del fiore. Ne risulta una singolare alterazione del nome di Dio, che viene per così dire riscritto alla rovescia, ponendo per ultima la yod iniziale. Ben lungi dall’essere il risultato di un semplice capriccio simbolico, questo nome speculare è in realtà del tutto coerente con lo statuto della rosa mistica, segno visibile della sephirah malkut (regno), che, secondo la tradizione cabbalistica, è lo 'specchio opaco' nel quale si riflette l’emanazione superna: la rosa accoglie pertanto metaforicamente la potenza divina e ne rende manifesta l’intensità".
------------
…non ancora brina, solo attesa
qui di tanto che verrà
nella stagione esatta: neve
ancora, neve assorta
in sé, neve soltanto, non presaga
neve, non senziente, neve
sola, silenziosa neve a proprio
istinto d’incredibile silenzio
e crolli da improvvisi rami e mai
dissolta neve, mai cangiante -
non ancora neve, solo attesa,
neanche brina intorno, solo attesa
e giorni e rose, solo attesa…
Prima serie
D’ulivi e luce
1
Il glicine ricurvo, non direi
che guardi verso terra muove
i fiori verso l'alto come
può per grazia e desiderio
e cerca e trova nella terra
gli elementi dell'azzurro
e si diffonde nella terra, impara
l'arte inimitabile: parlarle
suscitando e poi chiamando,
confidando in lei, dicendo
con celesti nomi sbigottite
ombre così pronte all'obbedienza
da gridare risalendo azzurro
il dentro della terra.
2
Così, fraternità d'ulivi e luce
semprecupo verde, argento
vivo: la fronda che sussulta
e muta e un po' trattiene
della luce intensa e qui la sola
gradazione in fuga, rifiutata
dalle foglie, inconsumata,
lei soltanto dà notizie:
testimonia una bontà nel mondo
un'alleanza di lattanti foglie
e luce nutriente: un'abbondanza,
luce più del necessario e quella
sola gradazione in fuga rifiutata
per l'eterno, inconsumata.
3
Sei qui, superflua parte
della luce: tu lampo sulla rètina,
infecondo tu sola gradazione
in fuga, rifiutata,
inconsumata fedelissima
porzione della luce, io non so
come ti accendi del felice
evento: luce in corsa
tra le linfe, nelle cave
nervature delle foglie e qui
dichiari, esulti come argento vivo
e forma che verrà moltiplicata
ancora e presto tu purissima,
felice quanto più dimenticata.
(Sonetti a due voci)
Collezione di poesia “Tabula”, n° 124,
a cura di Massimo Scrignòli,
Book Editore, Bologna 2006
A Layla: qui, con lei
NOTA PER LA LETTURA
Recitazione a due voci, assolutamente sonora: in tondo la voce maschile, in corsivo la femminile. Tenerezza virile e volitiva lungimiranza femminile.
Ogni serie è un'unità: compiuta in sé: una sola poesia.
NOTA SULLA RICORRENZA DELL'IMMAGINE DELLA ROSA
A proposito del pensiero zoharico, nota G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, p. 414: "La forza apotropaica di šošannah [plurale di šošan, "rosa", n.d.r.]trovò una spiegazione ulteriore nella corrispondenza tra i componenti della corolla e le lettere del Tetragramma, yod, he, waw, he: “La rosa ha cinque petali all’interno e cinque all’esterno, che equivalgono alle due he, mentre lo stelo è la waw e il pistillo è la yod”. E’ la struttura visiva della rosa a guidare, in questo caso, il collegamento con le consonanti ebraiche, con un movimento che trae origine dai petali, per scendere lungo il gambo e tornare poi al centro del fiore. Ne risulta una singolare alterazione del nome di Dio, che viene per così dire riscritto alla rovescia, ponendo per ultima la yod iniziale. Ben lungi dall’essere il risultato di un semplice capriccio simbolico, questo nome speculare è in realtà del tutto coerente con lo statuto della rosa mistica, segno visibile della sephirah malkut (regno), che, secondo la tradizione cabbalistica, è lo 'specchio opaco' nel quale si riflette l’emanazione superna: la rosa accoglie pertanto metaforicamente la potenza divina e ne rende manifesta l’intensità".
------------
…non ancora brina, solo attesa
qui di tanto che verrà
nella stagione esatta: neve
ancora, neve assorta
in sé, neve soltanto, non presaga
neve, non senziente, neve
sola, silenziosa neve a proprio
istinto d’incredibile silenzio
e crolli da improvvisi rami e mai
dissolta neve, mai cangiante -
non ancora neve, solo attesa,
neanche brina intorno, solo attesa
e giorni e rose, solo attesa…
Prima serie
D’ulivi e luce
1
Il glicine ricurvo, non direi
che guardi verso terra muove
i fiori verso l'alto come
può per grazia e desiderio
e cerca e trova nella terra
gli elementi dell'azzurro
e si diffonde nella terra, impara
l'arte inimitabile: parlarle
suscitando e poi chiamando,
confidando in lei, dicendo
con celesti nomi sbigottite
ombre così pronte all'obbedienza
da gridare risalendo azzurro
il dentro della terra.
2
Così, fraternità d'ulivi e luce
semprecupo verde, argento
vivo: la fronda che sussulta
e muta e un po' trattiene
della luce intensa e qui la sola
gradazione in fuga, rifiutata
dalle foglie, inconsumata,
lei soltanto dà notizie:
testimonia una bontà nel mondo
un'alleanza di lattanti foglie
e luce nutriente: un'abbondanza,
luce più del necessario e quella
sola gradazione in fuga rifiutata
per l'eterno, inconsumata.
3
Sei qui, superflua parte
della luce: tu lampo sulla rètina,
infecondo tu sola gradazione
in fuga, rifiutata,
inconsumata fedelissima
porzione della luce, io non so
come ti accendi del felice
evento: luce in corsa
tra le linfe, nelle cave
nervature delle foglie e qui
dichiari, esulti come argento vivo
e forma che verrà moltiplicata
ancora e presto tu purissima,
felice quanto più dimenticata.
Di giorni ancora
KADDISH ai vivi e ai morti
(Inedito)
NOTA
E' detta Kaddish la preghiera ebraica che accompagna e scandisce l’esperienza del lutto. In apertura, si riporta la traduzione del testo ashkenazita.
Sulla storia, l'uso e il significato del Kaddish si veda L. Wieseltier, Kaddish, Mondadori, Milano 2000 (traduzione di E. Loewenthal).
NOTA PER LA LETTURA
Lettura sempre a due voci, assolutamente sonora. In tondo la voce maschile, in corsivo la femminile. Proclamazione, quasi: piena, liturgica, a volte animandosi: fervore trattenuto, che affiori a tratti e pervada, in crescendo. Ampie quando opportuno le vocali, scanditi i gruppi consonantici; attenzione ai valori metrici e prosodici; misurate le pause.
Dopo Dedica una larga pausa; i testi di Kaddish l’uno di seguito all’altro, nell’ordine, intervallati da una pausa breve: una sola poesia.
MAGNIFICATO E SANTIFICATO SIA IL SUO GRANDE NOME
NEL MONDO CHE EGLI HA CREATO SECONDO LA SUA VOLONTÀ.
POSSA GIUNGERE IL SUO REGNO
NELLE VOSTRE VITE E NEI VOSTRI GIORNI
E NELLE VITE DI TUTTA LA CASA D’ISRAELE
PRESTO E IN UN TEMPO VICINO,
E DITE TUTTI AMEN!
AMEN! SIA BENEDETTO IL SUO GRANDE NOME
PER L’ETERNITÀ E PER L’ETERNITÀ DELL’ETERNITÀ!
BENEDETTO E LODATO E GLORIFICATO ED ELEVATO ED ESALTATO
E ONORATO E SUBLIMATO E LODATO
SIA IL NOME DEL SANTO - SIA BENEDETTO -
SOPRA TUTTE LE BENEDIZIONI E INNI E CONSOLAZIONI
PRONUNCIATI IN QUESTO MONDO,
E DITE TUTTI AMEN!
POSSA UNA GRANDE PACE DAL CIELO E UNA BUONA VITA
SCENDERE SU DI NOI E SU TUTTO ISRAELE,
E DITE TUTTI AMEN!
POSSA COLUI CHE STABILISCE LA PACE NEI SUOI LUOGHI ECCELSI
STABILIRE LA PACE SU DI NOI E SU TUTTO ISRAELE,
E DITE TUTTI AMEN!
(KADDISH ASKENAZITA)
-------
Dedica
Spesso, nella dura, estrema
debolezza - quando tanto c’è
da fare e il male avanza mentre
con le mani nude edifichiamo
argini di sabbia e sangue nostro
inutilmente, senza più
pensiero, senza forze vere
un giorno dopo l’altro - ecco,
appaiono figure di scoperti amici,
di alleati alacri quanto noi
(è dopo, Layla, quando nulla
resta più da contrastare e porti
i segni della resa
e del dolore concavo, del vuoto
in cui vagare devastato,
debolissimo e confuso
in un cratere vasto
d’esistenza e tempo - dopo,
quando nulla senti più
né vedi nulla e dài
richiami ripetuti a chi
sta intorno - è dopo
che svaniscono figure umane,
che fuggono da te per colpe
che non sai e non ricordi più
nemmeno i loro volti, non ricordi
neanche più se sono stati).
1
...vorrei di lui, parlargli appena
quanto dura un soffio
tra le piume leggere del taràssaco
sul ciglio d’una strada fuori mano:
dissipare quel dolore a grappoli
bianchissimi sul viso
solo il Nome,
il Nome per l’eterno e a te la voce
adesso, a te la lode
solo questo:
non di lui quaggiù nel tempo incerto,
non parole sue per noi, ma nostre
al solo Nome già tre volte santo
il Nome, guarda: puoi vederlo
scendere nel soffio che gli hai chiesto
tra le vigne intorno a casa:
dagli lode, dàlla a piena voce
io vorrei di lui, non so
da dove scenda il Nome:
so vicende di ciliegi e rose,
di ranuncoli e di mite
valeriana, imparo
tante cose conversando
con le erbe di anno in anno
le stagioni sai, e il Nome
cerca te dove accarezzi il poco
mondo conosciuto, attende
là che tu santifichi
la pena delle mandorle spiccate
verso terra e poi la gioia loro
che ricordi.
2
Presto, perché tanto incontra
una ferita aperta nella terra
una ferita, e non piuttosto
un arco d’ombra luminoso
nell’interno, un varco
nero ma pur sempre splendido,
regale?
Una ferita
aperta, e con dolore di ferita
ingiusta, di patita offesa
irrimediabile comunque,
un colpo inferto senza mai ragione
o carità in se stesso
vuole
dirsi, essere detta in questa nuda
identità, guardata con sgomento
esatto, ne sei certo?
la ferita aperta
resta ciò che è, non chiede mai
di sé all’Eterno e ancora
meno a noi che non possiamo
penetrarla finché dura il nostro
andare eretti, illesi dentro il gioco
della vita intatta
la vedrai
tu pure dall’interno, cederai
disfatto alla sorpresa del suo mondo
e tu che puoi, mio Dio,
trattieni sempre questa voce
se tentasse l’empietà
di dire luce al sangue o dire
grazia a ciò ch’è colpo
e strazio solamente
tu che puoi,
mio Dio, diffondi nella voce
il Nome solo perché tutto
resti eternamente ciò che è:
ferita e varco e dolorata
soglia lei ch’è appunto questo.
KADDISH ai vivi e ai morti
(Inedito)
NOTA
E' detta Kaddish la preghiera ebraica che accompagna e scandisce l’esperienza del lutto. In apertura, si riporta la traduzione del testo ashkenazita.
Sulla storia, l'uso e il significato del Kaddish si veda L. Wieseltier, Kaddish, Mondadori, Milano 2000 (traduzione di E. Loewenthal).
NOTA PER LA LETTURA
Lettura sempre a due voci, assolutamente sonora. In tondo la voce maschile, in corsivo la femminile. Proclamazione, quasi: piena, liturgica, a volte animandosi: fervore trattenuto, che affiori a tratti e pervada, in crescendo. Ampie quando opportuno le vocali, scanditi i gruppi consonantici; attenzione ai valori metrici e prosodici; misurate le pause.
Dopo Dedica una larga pausa; i testi di Kaddish l’uno di seguito all’altro, nell’ordine, intervallati da una pausa breve: una sola poesia.
MAGNIFICATO E SANTIFICATO SIA IL SUO GRANDE NOME
NEL MONDO CHE EGLI HA CREATO SECONDO LA SUA VOLONTÀ.
POSSA GIUNGERE IL SUO REGNO
NELLE VOSTRE VITE E NEI VOSTRI GIORNI
E NELLE VITE DI TUTTA LA CASA D’ISRAELE
PRESTO E IN UN TEMPO VICINO,
E DITE TUTTI AMEN!
AMEN! SIA BENEDETTO IL SUO GRANDE NOME
PER L’ETERNITÀ E PER L’ETERNITÀ DELL’ETERNITÀ!
BENEDETTO E LODATO E GLORIFICATO ED ELEVATO ED ESALTATO
E ONORATO E SUBLIMATO E LODATO
SIA IL NOME DEL SANTO - SIA BENEDETTO -
SOPRA TUTTE LE BENEDIZIONI E INNI E CONSOLAZIONI
PRONUNCIATI IN QUESTO MONDO,
E DITE TUTTI AMEN!
POSSA UNA GRANDE PACE DAL CIELO E UNA BUONA VITA
SCENDERE SU DI NOI E SU TUTTO ISRAELE,
E DITE TUTTI AMEN!
POSSA COLUI CHE STABILISCE LA PACE NEI SUOI LUOGHI ECCELSI
STABILIRE LA PACE SU DI NOI E SU TUTTO ISRAELE,
E DITE TUTTI AMEN!
(KADDISH ASKENAZITA)
-------
Dedica
Spesso, nella dura, estrema
debolezza - quando tanto c’è
da fare e il male avanza mentre
con le mani nude edifichiamo
argini di sabbia e sangue nostro
inutilmente, senza più
pensiero, senza forze vere
un giorno dopo l’altro - ecco,
appaiono figure di scoperti amici,
di alleati alacri quanto noi
(è dopo, Layla, quando nulla
resta più da contrastare e porti
i segni della resa
e del dolore concavo, del vuoto
in cui vagare devastato,
debolissimo e confuso
in un cratere vasto
d’esistenza e tempo - dopo,
quando nulla senti più
né vedi nulla e dài
richiami ripetuti a chi
sta intorno - è dopo
che svaniscono figure umane,
che fuggono da te per colpe
che non sai e non ricordi più
nemmeno i loro volti, non ricordi
neanche più se sono stati).
1
...vorrei di lui, parlargli appena
quanto dura un soffio
tra le piume leggere del taràssaco
sul ciglio d’una strada fuori mano:
dissipare quel dolore a grappoli
bianchissimi sul viso
solo il Nome,
il Nome per l’eterno e a te la voce
adesso, a te la lode
solo questo:
non di lui quaggiù nel tempo incerto,
non parole sue per noi, ma nostre
al solo Nome già tre volte santo
il Nome, guarda: puoi vederlo
scendere nel soffio che gli hai chiesto
tra le vigne intorno a casa:
dagli lode, dàlla a piena voce
io vorrei di lui, non so
da dove scenda il Nome:
so vicende di ciliegi e rose,
di ranuncoli e di mite
valeriana, imparo
tante cose conversando
con le erbe di anno in anno
le stagioni sai, e il Nome
cerca te dove accarezzi il poco
mondo conosciuto, attende
là che tu santifichi
la pena delle mandorle spiccate
verso terra e poi la gioia loro
che ricordi.
2
Presto, perché tanto incontra
una ferita aperta nella terra
una ferita, e non piuttosto
un arco d’ombra luminoso
nell’interno, un varco
nero ma pur sempre splendido,
regale?
Una ferita
aperta, e con dolore di ferita
ingiusta, di patita offesa
irrimediabile comunque,
un colpo inferto senza mai ragione
o carità in se stesso
vuole
dirsi, essere detta in questa nuda
identità, guardata con sgomento
esatto, ne sei certo?
la ferita aperta
resta ciò che è, non chiede mai
di sé all’Eterno e ancora
meno a noi che non possiamo
penetrarla finché dura il nostro
andare eretti, illesi dentro il gioco
della vita intatta
la vedrai
tu pure dall’interno, cederai
disfatto alla sorpresa del suo mondo
e tu che puoi, mio Dio,
trattieni sempre questa voce
se tentasse l’empietà
di dire luce al sangue o dire
grazia a ciò ch’è colpo
e strazio solamente
tu che puoi,
mio Dio, diffondi nella voce
il Nome solo perché tutto
resti eternamente ciò che è:
ferita e varco e dolorata
soglia lei ch’è appunto questo.