Marc Chagall
La pittura di Marc Chagall non mi aveva particolarmente impressionato quando ero più giovane: le figure che tornavano quasi identiche da un dipinto all’altro e da una stampa all’altra - le donne in volo, i bouquet nel cielo, i galli arrotolati su se stessi e gli angeli musicanti - non mi dicevano nulla di notevole perché mi sembravano tenere e sognanti fantasie, magari un po’ naïf, prive della drammaticità che tanto apprezzavo in Munch quanto della febbrile ricerca che amavo in Kandinskij. A mia parziale discolpa, posso dire che ne conoscevo assai poco e molto superficialmente; e anche che i miei occhi non erano pronti all’incanto veritiero, rivelatore e liberante del suo mondo.
Fu dopo i 35 anni che Chagall mi folgorò: le cinque tele del suo Cantico dei cantici entrarono non so come nel mio campo visivo e vi presero stabile dimora. Me ne sentii attratto, chiamato, avvolto, avvinto ed espresso: non me ne separai più. Mi recai a Nizza per vederle da vicino: avevo iniziato a raccogliere materiali e a studiare per capire meglio (con l’ebraismo e le sue tradizioni, anche quelle dell’Europa dell’Est, vivevo da tempo una discreta intimità), ma avevo bisogno soprattutto della vicinanza fisica, della condivisione devo spazio: della compresenza tra loro e me.
L’audioguida che avevo noleggiato all’ingresso del Musée du Message Biblique, sulle note di un adagio di Bach, invitava i visitatori della saletta in cui si trovava il Cantico a guardare senza pensare a nulla, abbandonandosi al sogno e lasciandosi cullare dalle sfumature armoniose del rosso. Ciò che vissi in quella saletta esagonale dalle luci ovattate, però, non fu tanto un sogno quanto un risveglio: tutto ciò che vidi mi apparve come perfettamente reale, personalmente vissuto, concretamente esperito: lo compresi come una storia, una narrazione personale e universale insieme - c’ero anch’io, in quelle tele, e c’era ogni visitatore che osservava ascoltando Bach e pensando a chissà che; c’era la vita di Marc Chagall, tutta, così come l’aveva voluta raccontare. Grazie al racconto che ascoltavo osservando rapito quelle tele, anch’io rivivevo e raccontavo - o meglio: potevo raccontare il lutto e la separazione, l’infanzia e il suo mito, la gioia e la speranza, i dolori e le rinascite, il tempo dell’intero mondo creato, il divenire e la memoria, la proiezione al futuro che a volte sa rendere ragione del passato e rendere vivibile il presente; e ancora, ciò che era stato e ciò che non aveva potuto o voluto essere, ciò che attendeva e ciò che non sarebbe mi tornato. Insieme, c’era la vita di Marc Chagall: ciò che era stato per lui il Cantico dei cantici mi abilitava a dire a me stesso ciò che era stato per me, ad ascoltare dalla voce della speranza è della fiducia ciò che ancora sarebbe stato, e ciò che avrebbe potuto e ancora poteva essere per tutti e per ciascuno.
Di tutto questo ho raccontato in L'albero coricato. L'intimità, il tempo e il desiderio: il Cantico dei cantici di Marc Chagall (Castelvecchi 2016).